Il periodo che intercorre tra le Operette morali del ’24 e la grande ripresa poetica pisano-recanatese del 1828-29 è fra i piú poveri di opere nella vita del Leopardi. Trascurato in generale dalla critica, solo recentemente è stato fatto oggetto di studio da parte del Bigi[1], che ne ha tentato una prima sistemazione, interessante, ma, nelle sue linee fondamentali, poco convincente, perché tende a vedere in questi anni successivi immediatamente alle Operette morali del ’24 (accettate in certo senso secondo la diagnosi desanctisiana, come un momento in cui è soprattutto presente l’intelletto o, meglio, vive una speciale poesia musicale corrispondente a un sostanziale atteggiamento di distacco e indifferenza) una lenta ripresa sentimentale e fantastica che verrebbe poi a preparare la zona dei grandi idilli del ’28-30.
A me pare (in uno schema che richiede di essere svolto al di là di queste lezioni, con tanta maggiore precisione) che si debba giungere anzitutto a una migliore precisazione circa gli anni ’25-26 come a un periodo di minore tensione e pressione intensa, quale si trovava invece nelle Operette morali, malgrado gli avvii, in alcune di quelle, di un atteggiamento di saggezza delusa e stoicamente meno attiva. È un periodo in cui in sostanza prosegue soprattutto l’operazione di carattere filosofico, la ricerca del «piacere dei pensieri metafisici», specialmente attraverso la riflessione dello Zibaldone.
Guardando anche agli aspetti della biografia leopardiana di questo periodo, assai movimentata per i molti spostamenti di luogo (Leopardi nel luglio del ’25 passa a Bologna; dopo alcuni giorni va a Milano, dove ha incarichi di lavoro da parte dell’editore Stella; da Milano ritorna a Bologna nel settembre del ’25 e rimane qui fino al novembre del ’26; ritorna a Recanati fino all’aprile del ’27; di nuovo è a Bologna per due mesi, quindi a Firenze e dal novembre del ’27 a Pisa) ci si potrebbe attendere una maggiore alacrità di vita, d’incontri; ma in realtà anche gli incontri, che non mancarono, e persino l’innamoramento per una contessa residente a Bologna, Teresa Malvezzi, hanno tutto sommato uno scarso riflesso interiore.
Anzi, questa stessa tenue vicenda amorosa non può essere neppure lontanamente paragonata a quella grossa passione (stimolo non unico, ma importante della poesia e degli atteggiamenti dell’ultimo Leopardi, all’altezza del periodo ’31-32 a Firenze) per Fanny Targioni Tozzetti («Aspasia»).
In alcune lettere, certo, il Leopardi parla della Malvezzi come di una donna che ha ora gran parte nella sua vita; ma poi prestissimo questa infatuazione si stempera, la donna non corrisponderà al suo amore e Leopardi se ne sbrigherà definendola con una parola molto pesante[2].
Anche per quanto riguarda gli incontri di questo periodo si può ben notare che Leopardi ha reazioni meno intense di quelle precedenti o di quelle successive. Sí, certo le prime lettere scritte appena arrivato a Bologna o nel primo ritorno nella stessa città possono dare l’impressione di un Leopardi che giudica anche gli uomini diversamente, che si rallegra di questi bolognesi amabili, pacifici, lieti, che egli chiama «vespe senza pungolo» (gli uomini sono cioè vespe, ma questi hanno il privilegio di non avere il pungolo, di essere meno offensivi). Ma non c’è piú di questo. In realtà tutto quello che si può ritrovare, anche in sede di biografia, nel periodo fiorentino dal ’30 in poi (un nuovo profondo desiderio d’incontri umani e culturali), qui effettivamente manca. Basti semplicemente ricordare tra le lettere leopardiane di questi anni ’25-26, una al Giordani del 6 maggio 1825, che è assai indicativa per la situazione di base di questo periodo: non una condizione di alacrità, d’impegno, di tensione, magari anche fortemente polemica, ma un atteggiamento in sostanza di delusione e anche a volte di astensione, che condurrà il Leopardi a certe significative consonanze con la morale di Epitteto.
Scrive il Leopardi: «Quanto piú gli uomini mi paiono piante e marmi per la noia che io provo nell’usar con loro, tanto piú di giorno in giorno io mi confermo nel pensiero che egli ci ha pure» (riferendosi al Giordani) «uno col quale vivendo e parlando, mi parrebbe vivere». E ancora: «Quanto al genere degli studi che io fo, come io sono mutato da quel che io fui, cosí gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro piú fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato»[3].
Sono indicazioni importanti: tutto quello che è poetico, eloquente, affettuoso, lo annoia, gli sembra una cosa risibile e inutile; semmai egli cerca il vero, la sua unica tensione è speculativa e intellettuale e come meno legata a tutte le altre forze della sua personalità.
Cosí ancora in una lettera del 4 marzo 1826 al Vieusseux, il Leopardi dice che egli si è «assuefatto» a una specie di «assenza», sí che non riesce piú a partecipare alla vita e ai rapporti umani: «Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente»[4].
D’altra parte il Leopardi stesso analizzava la sua situazione con grande lucidità, anche per esempio in un pensiero del 12 maggio 1825, parlando dell’uomo e del filosofo bisognoso di solitudine, deluso, che sente la vanità delle cose umane e degli uomini, senza forti interessi per le persone.
Egli dice che l’uomo deluso, solitario viene portato soprattutto ai pensieri metafisici: «E in somma si può dire che il filosofo e l’uomo riflessivo coll’abito della vita sociale non può quasi a meno di non essere un filosofo di società (o psicologo, o politico ec.), coll’abito della solitudine» (da intendersi non solo nel senso materiale perché anzi in questo periodo Leopardi verrà a vivere in ambienti dove non gli mancavano possibilità di incontri) «riesce necessariamente un metafisico. E se da prima egli era filosofo di società, da poi, contratto l’abito della solitudine, a lungo andare egli si volge insensibilmente alla metafisica e finalmente ne fa il principale oggetto dei suoi pensieri e il piú favorito e grato» [4139][5].
Affermazioni di questo genere svuotano il fatto stesso che Leopardi abbia potuto avere degli incontri a Bologna, a Milano con alcune persone di rilievo (Monti ecc.): mancava la base di interesse. È un Leopardi che è preso da una profonda delusione e semmai è volto verso una certa astensione e verso il gusto dei pensieri “metafisici”; sicché a voler dire tutto (e senza voler con ciò recare incrinature alla grandezza leopardiana), non è a caso che proprio in questo periodo, nel ’25, si trovi una lettera del 3 agosto al Bunsen (l’amico tedesco del periodo romano), a cui il Leopardi acclude una lettera «ostensibile» (cioè che si poteva mostrare ad autorità della corte romana del tempo, dalla quale egli si attendeva l’offerta di un impiego) e in questa esprime effettivamente idee del tutto contrarie alle sue[6]. In questo periodo c’è dunque anche una maggior facilità alle concessioni, da cui il Leopardi evidentemente si riscatta con tutta la sua opera e con tutta la sua vita: né certe umiliazioni colpiscono tanto chi vi si può trovare eccezionalmente costretto, quanto i regimi e le istituzioni autoritarie e illiberali che chiedono solo obbedienza e negano ogni libertà di pensiero a chi pur abbia bisogno di “sopravvivere” sotto il loro dominio. Mentre, ad esempio, il Leopardi piú forte e sicuro degli ultimi anni protesterà violentemente contro chiunque possa parlare di una sua concessione pratica rispetto alla fermezza delle sue idee[7].
Questo stato di maggiore debolezza e astensione si può trovar confermato anche dalla traduzione del Manuale di Epitteto a cui il Leopardi si applicò in questo periodo (ed evidentemente per ragioni non tutte esterne)[8].
C’è un’adesione alla morale di Epitteto persino nel tipo di prosa, che è diventata distaccata, calma, indifferente, senza quelle capacità di vibrazione che si colgono un po’ sempre nella prosa leopardiana delle Operette morali, anche quando non giungono a inflessioni piú profonde. Per questo il Manuale è assai rivelatore; soprattutto per il preambolo che il traduttore Leopardi premise in lode di quella filosofia, che egli stesso dichiara essere non una filosofia della forza, ma della debolezza e della saggezza delusa. Viene cioè prospettato uno stoicismo in questa chiave, diverso dallo stesso stoicismo, malgrado tutto, piú energico che poteva apparire nel finale del Parini, in cui si diceva che bisogna seguire il nostro fato qualunque esso sia «con animo forte e grande»[9].
Dice infatti il Leopardi nel preambolo: «non altro è quella tranquillità dell’animo voluta da Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non ciò che noi chiamiamo freddezza d’animo, e noncuranza, o vogliasi indifferenza». Leopardi sa dunque indicare con grande lucidità il preciso carattere di questo stoicismo che pure egli accetta in questo momento di depressione, ma che non era però la sua piú profonda, piú vera, piú congeniale morale, cioè la morale eroica e di lotta contro il fato.
Con pagine tutte importanti in questo preambolo, Leopardi distingue chiaramente tra quello che sarebbe la sua aspirazione naturale e il suo vero atteggiamento, e ciò che accetta in questo momento. Cosí come nello Zibaldone quando parlerà a lungo della «pazienza» cosí utile a chi si trova in situazioni di debolezza, dirà però che la pazienza è una virtú negativa, non è la sua virtú; la accetta in questo momento ma non la ama.
Cosí dice ancora nel preambolo citato che non potendo ottenere certi risultati:
[...] è proprio degli spiriti grandi e forti l’ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe di Eschilo, e come gli altri magnanimi degli antichi tempi. Proprio degli spiriti deboli di natura, o debilitati dall’uso dei mali e dalla cognizione della imbecillità naturale e irreparabile dei viventi, si è il cedere e conformarsi alla fortuna e al fato, il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente; anzi, per cosí dire, il perdere quasi del tutto l’abito e la facoltà, siccome di sperare, cosí di desiderare.
Questa morale di astensione, «quantunque niente abbia di generoso», è tuttavia utile e profittevole a queste condizioni di stato d’animo.
Dirà infine, parlando di se stesso: «Ed io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di cosí fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente in esecuzione». È una morale di astensione accettata «mal [suo] grado»: è un atteggiamento che non è di ripresa rispetto alle Operette morali, che anzi queste nel loro insieme erano molto piú ricche di vitalità e di energia.
Questa caduta si avverte negli stessi pensieri dello Zibaldone, in cui Leopardi, mentre si applica costantemente, e con tanta lucidità, a proseguire, a parte gli studi linguistici che non mancano mai, la linea speculativa dell’indagine sul vero, a perseguire ciò che egli chiama il «piacere dei pensieri metafisici», abbandona d’altra parte quasi totalmente la linea di quei pensieri o sulla poesia o di carattere sociale, politico, storico, psicologico che erano cosí tipici dello Zibaldone precedente.
Cosí la linea dei pensieri metafisici è praticamente l’unica linea veramente attiva di questo periodo leopardiano perché se analizziamo l’unico documento di poesia (ma diciamo pure di versificazione) costituito dall’epistola Al conte Carlo Pepoli[10], scritta nel marzo del 1826, e recitata a Bologna con un successo assai discutibile, certamente noi troveremo una verifica di questa situazione non adatta alla poesia, una mancanza di pressione interna da cui la poesia leopardiana non poteva sgorgare.
Basti pensare alla stessa forma che qui Leopardi accetta: è la tipica epistola in verso sciolto di tanta poesia discorsiva, descrittiva, ragionativa del Settecento. E qui il verso sciolto è veramente caduto, nell’uso leopardiano, dalla alta forza lirica che aveva avuto nell’Infinito e che riacquisterà nelle Ricordanze (dove addirittura lo sciolto sarà il verso originalissimo di un discorso poetico piú libero e anticonvenzionale) allo strumento facile di una versificazione prosastica:
Questo affannoso e travagliato sonno
che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
vai sostentando? in che pensieri, in quanto
o gioconde o moleste opre dispensi
l’ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
grave retaggio e faticoso? È tutta,
in ogni umano stato, ozio la vita, [...]. (vv. 1-8)
Si sente subito fin da questo inizio che sono versi inerti, che non c’è quell’alacrità sentimentale e fantastica che è del vero Leopardi e che manca nella stessa ripresa alfieriana iniziale. I primi due versi infatti richiamano chiaramente un verso della Congiura de’ Pazzi dell’Alfieri («In questa morte, che nomiam noi vita», At. V, sc. 1, v. 74), dove c’era un contrasto formidabile, pieno di implicazioni profonde: nei versi leopardiani invece, è tutto come diluito, c’è come una voce attediata, priva di ogni vera capacità immaginativa e fantastica. Certo, in sede di puri contenuti, ricorrono in questa epistola il «caro immaginar», il tema dell’amore, perfino il tema della patria, ma tutto è smorzato, privo di una partecipazione intera e profonda.
Cosí quando il Leopardi parla dell’amore e della donna vagheggiando la «Dolce parola di rosato labbro» (v. 74), egli scrive un verso molto convenzionale, che ricalca da certe forme settecentesche, privo di ogni capacità di reazione piú interna, lontanissimo dai versi di amore e di vagheggiamento della bellezza femminile evocata, ad esempio, in tutto il suo fascino, da un semplice particolare, come nel Risorgimento del ’28: «Ed alla mano offertami / candida ignuda mano» (vv. 61-62).
Anche quando a metà della poesia il Leopardi descrive una serie di tipi umani i quali cercano di fuggire l’ozio, il tedio, la noia, attraverso i piaceri piú volgari della vita moderna, attraverso i viaggi, le guerre (e tutti però alla fine sono riportati a questo senso della noia, dell’inutilità di un’azione che essa stessa è una forma di ozio), questa descrizione si atteggia nelle forme piú convenzionalmente pariniane, in una successione di quadretti-ritratti senza ritmo e animazione poetica.
Certo anche lí non mancano per noi motivi di interesse come là dove il Leopardi manifesta una sua chiara posizione di antipatia per le lotte tra gli uomini, per le «crudeli opre di marte» (v. 88), per chi «nel fraterno / sangue la man tinge per ozio» (vv. 89-90), ma questo interesse non può uscire da un ambito puramente contenutistico.
Lo stesso piú mosso finale (in cui il Leopardi sostanzialmente dice che quando quel poco di sensibilità, di vita, di gioventú che ancora gli rimane sarà del tutto dileguato, non potrà fare altro che volgersi unicamente al gusto della speculazione intellettuale), è stato, mi pare, troppo esagerato nel suo valore dal Bigi, per il quale il Leopardi vorrebbe soprattutto indicare che però egli a questo stato non era ancora giunto. È un ragionamento capzioso; questo è in realtà un Leopardi ben diverso da quello che si riaprirà alla poesia col Risorgimento, è un Leopardi che al massimo rimpiange (e lo fa stancamente, come si sente anche nel suono degli stessi versi in modo molto diverso da alcuni celebri passi del Passero solitario, simili per contenuto) una vitalità in quel momento perduta o in declino.
D’altra parte il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco del 1825 offriva, come si è detto, un’ulteriore riprova dello stato non fantastico del Leopardi in questo periodo.
Si è già accennato ai pensieri tra il ’25 e il ’26, che vertono sulla riaffermazione e sullo sviluppo della posizione materialistica. Ancora in un pensiero del 26 settembre 1826, con una prospettiva che dice molto sul seguito dello sviluppo leopardiano, anche per certe parole che qui vengono enunciate con una maggiore calma speculativa e che in seguito acquisteranno un senso piú vigoroso di persuasione e di polemica, il poeta afferma che il famoso spirito, di cui tanto si parla, non ha nessuna realtà: «È impossibile non deplorar la miseria dell’intelletto umano considerando un cosí fatto delirio», cioè l’idea di uno spirito che abbia una sua consistenza, una sua realtà:
Ma se pensiamo poi che questo delirio si rinnuova oggi completamente; che nel secolo XIX risorge da tutte le parti e si ristabilisce radicatamente lo spiritualismo, forse anche piú spirituale, per dir cosí, che in addietro; che i filosofi piú illuminati della piú illuminata nazione moderna [la Francia], si congratulano di riconoscere per caratteristica di questo secolo, l’essere esso éminemment religieux, cioè spiritualista; che può fare un savio, altro che disperare compiutamente della illuminazione delle menti umane, e gridare: o Verità, tu sei sparita dalla terra per sempre, nel momento che gli uomini incominciarono a cercarti. [4207-4208][11]
Il Leopardi qui giunge non solo a questa risoluta negazione dello “spirito”, ma pone le basi della sua polemica contro il neo-spiritualismo del secolo XIX contro cui si batterà fino all’estrema altissima poesia La ginestra.
In questo importante filone di pensieri il Leopardi conduce avanti anche una radicale negazione di ogni Dio provvidente: «È naturale all’uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortuni e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, una perspicacia, una esperienza superiore alla propria, in qualche persona» [4229].
Il Leopardi dice che questo avviene a vari livelli, da parte di fanciulli e di giovani rispetto ai genitori, su su fino a giungere all’idea della necessità di un Dio provvidente che non è altro che la proiezione macroscopica di questa tendenza dell’uomo, indotto dalla sua miseria a immaginarsi per contrasto qualcosa che supplisca a questa miseria, una sapienza e una provvidenza superiore:
E questa qualità dell’uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e cosí volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell’esito delle cose nostre. [4230][12]
D’altra parte nello Zibaldone uno stringente filone di pensieri converge sulla consequenziaria affermazione del male del mondo, dell’esistere, riprendendo e consolidando quella lunga meditazione cosí centrale in Leopardi sul tema vita-esistenza, sul male dell’esistere. Saltando molti passaggi intermedi[13], va almeno ricordata, in un pensiero del 19-22 aprile 1826, questa precisa asserzione fatta in contrasto alle posizioni finalistiche del Leibniz divulgatesi in certo illuminismo ottimistico, e per esempio in Inghilterra col Pope («tutto è bene»): «tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male» [4174].
Si noti questa esaurienza estrema nel voler ribadire un pensiero tutto centrato su questa tremenda parola ridispiegata in tutte le sue pieghe:
Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir cosí, del non esistente, del nulla.
Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse piú sostenibile di quello del Leibniz, del Pope ec. che tutto è bene. [4174]
E ancora aggiunge:
Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male anche per l’universo intero, e piú ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des malheurs de chaque être un bonheur général. [...] Non si comprende come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene). Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al loro modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perché il piacere non esiste esattamente parlando. Or ciò essendo, come non si dovrà dire che l’esistere è per se un male?
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. [4175]
Segue la parte piú alta e in qualche modo piú crudele e veramente spaventosa per lucidità, la pagina piú interessante di questi anni, che è come una specie di rovesciamento di tutta l’apologetica delle “meraviglie” del creato e della natura:
Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella piú mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo piú, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti piú sensibili, piú vitali. Il dolce miele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha piú foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi: le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresí, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben piú deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. [4175-4177][14]
È una pagina giustamente famosa, ma non antologicamente estraibile solo come pagina esemplare di stile, perché essa è il culmine di queste profonde riflessioni in cui il Leopardi ha portato sino in fondo e sino quasi alla crudeltà questa sua specie di smascheramento del vero dal falso, della facile infatuazione per le meraviglie del creato, di tutto ciò che sarebbe stato fatto per un fine. Tutte le parole sono qui estremamente calcolate e si noti tra l’altro il contrasto tra l’aspetto della donzelletta e ciò che essa fa o tra la saggezza del giardiniere e la sua opera di carnefice. Su questa strada Leopardi aveva portato fino in fondo la sua denuncia della sofferenza, dell’infelicità e delle mostruosità della natura. Il Leopardi ha raggiunto qui una posizione di estrema “non accettazione” di certe infatuazioni, e soprattutto ha capovolto il facile mito delle meraviglie della natura, che in realtà sono errori: questa organizzazione perfetta è piú orribile che se fosse imperfetta, perché comporta il patimento di tutto e di tutti[15]. Nel ’25-26 Leopardi viene dunque consolidando queste sue importanti posizioni che sono tutt’altro che semplici posizioni da poeta, nel senso sbagliato che qualche volta si dà a questa parola, cioè di uomo irresponsabile di ciò che dice, responsabile solo della “bellezza” di ciò che dice.
È invece tra il 1826 e il ’27 che si può avvertire un certo mutamento, una certa ripresa piú intera delle forze sentimentali speculative, fantastiche che può partire sempre da alcuni passi dello Zibaldone. Mi riferisco a un pensiero del 9 aprile del ’27 sulla immortalità dell’anima che è importante non tanto per il rifiuto che Leopardi oppone alla prova del senso comune per affermare l’immortalità dell’anima, ma perché viene a rompere in qualche modo questo senso di solitudine e ad aprire un nuovo atteggiamento che è alla radice delle poesie del ’28-30, i grandi canti del periodo pisano-recanatese.
Dice il Leopardi:
Allegano in favore della immortalità dell’animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto piú di ragione, quanto che il sentimento ch’io sono per dire è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un’opinione. Se l’uomo è immortale, perché i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l’egoismo che in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuni ricevono qualche grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto. Noi c’inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e malgrado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura. [...] Ma perché aver compassione ai morti, perché stimarli infelici, se gli uomini sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l’odierebbe, perché lo stimerebbe reo. [...] Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita e l’essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto, non sia piú.
Ma se crediamo questo, perché lo piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è piú? – Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perché ha cessato di vivere, perché ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell’essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto. Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui.
In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è piú, io non lo vedrò piú. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai piú; ci fa piangere. [4277-4278][16]
Il pensiero continua su questo «mai piú» ma il punto piú importante è questo: attraverso questo pensiero e nello svolgimento successivo, nel Leopardi comincerà a crescere sempre piú una tensione verso le persone concrete: questi morti che erano quei vivi e che non sono piú. Anche altri pensieri insistono sul desiderio dell’uomo di comunicare con gli altri[17] perché la vita è un rapporto con gli altri, come la morte è quella degli altri: non è la nostra morte che ci interessa e ci commuove, è la perdita delle altre persone che sconvolge tutta la nostra vita. Il Leopardi comincia a muoversi su questa altra onda: dalla solitudine “metafisica” dei pensieri del ’25-26 scaturisce a poco a poco questa tensione verso le persone concrete, verso gli “altri”.
Rivelazione di questa ripresa sono le due operette del ’27: il Dialogo di Plotino e di Porfirio e Il Copernico. Sono tutte e due importanti perché il Leopardi ricomincia a riannodare pensiero e poesia, come era avvenuto nelle Operette morali del 1824 e come non avveniva in quel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, che era una nuda prosa scientifica e filosofica.
Il Copernico è una nuova presa di posizione del Leopardi sulla ridicolaggine di certe presunzioni umane, di certe concezioni religiose e filosofiche come l’antropocentrismo e il geocentrismo, il quale ultimo, agli occhi del Leopardi, appare come antropocentrismo esso stesso, cioè come proiezione della interessata volontà degli uomini di essere al centro e padroni dell’universo. Tutta l’operetta è impostata su saldi e importanti motivi di battaglia ideologica aggressiva e satirica; Leopardi mostra fra l’altro come il capovolgimento copernicano dei rapporti terra-sole non ebbe solo conseguenze scientifiche, ma capovolse tutta la concezione della vita umana e della metafisica[18]. Ma il Copernico è anche un testo fantasticamente alacre. E anzi c’è quasi un certo eccesso di volontà di inventività artistica: questo dialogo si distingue infatti da quelli del ’24 anche perché vi si inseriscono piú presenze, piú voci; l’Ora che compare di fronte al Sole, poi Copernico che fa un monologo, poi il dialogo cosí rapido tra l’Ora ultima e Copernico, e poi Copernico e il Sole. Ne nascono come tante piccole scene che cercano di corrispondere a questa volontà artistica leopardiana di rendere piú complesso lo schema del dialogo corrispondentemente a una rinnovata alacrità artistica.
Ma piú che Il Copernico l’operetta decisiva per l’avvio della successiva poesia è il Dialogo di Plotino e di Porfirio, che il Leopardi scrisse nel settembre del 1827. L’impostazione e il livello delle due voci che dialogano, quella di Porfirio tentato di morire volontariamente perché stanco della vita, attediato, e quella di Plotino, che cerca di opporgli ragioni contrarie al suicidio prima in sede filosofica e razionale e poi, quando vedrà di essere battuto, ragioni schiettamente umane, sono una novità ulteriore nel tipo delle operette e dei dialoghi leopardiani, perché qui si tratta di due voci di pari livello mentre tutti i dialoghi precedenti giocavano, anche con notevoli effetti artistici, tra una voce minore, la voce interprete delle comuni mortali sciocchezze e delle concezioni tradizionali, e la voce dell’uomo superiore, in certo modo la voce dei miti e quella della verità.
In questo caso invece Leopardi ha impostato il dialogo su due voci di pari livello e dignità, sicché ne è nato un vero colloquio piú che un contrasto, da cui risulta non solo l’altezza quasi omogenea di tutto il discorso, ma deriva soprattutto il fatto importante che qui si ristabilisce un vero colloquio. Si tratta cioè di un Leopardi che si muove dalla solitudine al rapporto, agli “altri”.
Plotino che ha capito che Porfirio sta pensando al suicidio, senza che l’amico gliene abbia parlato (e ciò riporta a questa acuita sensibilità delle persone tra di loro, a questo senso del rapporto tra gli uomini, a questo capirsi senza parlare), oppone all’amico anzitutto le ragioni del sistema platonico. È su questo terreno che si svolge la replica di Porfirio, che addirittura giungerà non solo alla giustificazione razionale del suicidio, ma anche a una forma di polemica contro Platone, estendendo quello che era solo uno spunto nel Bruto minore fino all’accusa della concezione religiosa di fondo cristiano.
A un certo punto entrambi giungono a capire che sul terreno razionale le ragioni di Plotino contro il suicidio non hanno una vera consistenza, e Plotino allora proverà l’ultima strada (ed è una strada che si riconnette al ricordato pensiero sull’immortalità) appellandosi al valore e al senso degli “altri”.
Dice appunto Plotino a Porfirio nel finale:
Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano [inumano è la parola importante che subito qui spunta]. E non dee piacer piú, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso?
Tutto si sposta sugli “altri” (non possiamo ucciderci, perché cosí addoloriamo gli altri, le persone care, le quali non possono non provare un dolore tremendo) e su questo senso del «per sempre» e del «mai piú»:
Io so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari.
Per Leopardi il suicidio si giustificherebbe per l’uomo solo, ma da quando è nato questo senso degli altri, l’uomo non si suicida per non voler privare per sempre di sé i propri cari: «Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sí fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro»[19].
Chiude la parte finale del discorso di Plotino la famosa perorazione, cosí temperata e profonda, che egli rivolge a Porfirio invitandolo a non uccidersi:
Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosí, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sí bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.[20]
Sono parole altissime che aprono la via alla grande poesia del ’28-30, che non sarà cosí una poesia dei puri e perfetti “miti idillici”, ma sarà un modo piú profondo di collaborare da parte del Leopardi a una vita di rapporti, a una specie di recupero della vita delle persone scomparse e del tempo scomparso[21], una poesia cioè con implicazioni profonde che l’interpretazione piú comune di tipo idillico ha quasi sempre incompreso o non valorizzato convenientemente.
1 Cfr. E. Bigi, «Dalle Operette morali ai “grandi idilli”» cit.
2 Cfr. la lettera del 21 maggio 1827 ad Antonio Papadopoli: «Come mai ti può capire in mente che io continui d’andare da quella puttana della Malvezzi?» (Tutte le opere, I, p. 1283).
3 Tutte le opere, I, p. 1198.
4 Tutte le opere, I, pp. 1242-1243.
5 Tutte le opere, II, p. 1081.
6 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 1206-1207.
7 Si veda la lettera da Roma al Vieusseux del 27 ottobre 1831, a proposito di una voce secondo cui egli si sarebbe recato a Roma per accettare la condizione prelatizia e ottenere cosí un impiego nella Curia: «Io ho detto costí, prima di partire, a chiunque ha voluto saperlo, e dico qui a tutti, che tornerò a Firenze, passato il freddo; e cosí sarà, se non muoio prima. Questo amerei che ripeteste a chi parla di prelature o di cappelli, cose ch’io terrei per ingiurie se fossero dette sul serio. Ma sul serio non possono esser dette se non per volontaria menzogna, conoscendosi benissimo la mia maniera di pensare, e sapendosi ch’io non ho mai tradito i miei pensieri e i miei principii colle mie azioni». Tutte le opere, I, p. 1367.
8 Si legge in Tutte le opere, I, pp. 493-502. Cfr. anche G. Leopardi, Il Manuale di Epitteto, a cura di C. Moreschini, Roma, Salerno Editrice, 1990.
9 Il Preambolo del volgarizzatore si legge in Tutte le opere, I, pp. 492-493.
10 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 22-24.
11 Tutte le opere, II, p. 1111.
12 Tutte le opere, II, p. 1121.
13 Cfr. almeno ancora nel 1824 il pensiero del 3 giugno (Tutte le opere, II, pp. 1064-1065), nel 1825 quello del 5-6 aprile (Tutte le opere, II, pp. 1077-1079), quello del 9 aprile (Tutte le opere, II , pp. 1079-1080), quello del 3 maggio (Tutte le opere, II, pp. 1080-1081), nel 1826 quelli dell’11 marzo (Tutte le opere, II, p. 1095): pensieri che incalzano le orribili contraddizioni della natura, prendendo per base il Dialogo della Natura e di un Islandese.
14 Tutte le opere, II, pp. 1097-1098.
15 Cfr. anche nello Zibaldone il pensiero del 18 febbraio 1827 (Tutte le opere, II, p. 1130) e quello del 21 marzo (Tutte le opere, II, p. 1135) che capovolge le giovanili lodi leopardiane del «magisterio» della natura e del suo creatore nell’affermazione che nell’universo c’è un «ordine», ma un ordine malvagio sí che «ciascuno di noi [...] l’avria saputo far meglio [l’universo], avendo la materia, l’onnipotenza in mano» e Leopardi “ammira” «piú degli altri» l’ordine e l’universo: ma «per la sua pravità e deformità [...] estreme» [4257-4258].
16 Tutte le opere, II, pp. 1144-1145.
17 Cfr. il pensiero del 1° luglio 1827 (Tutte le opere, II, p. 1147) in cui la tristezza della vecchiaia è fatta consistere nel dolore di «non ispirar piú nulla» agli altri, poiché «Il gran desiderio dell’uomo, il gran mobile de’ suoi atti, delle sue parole, de’ suoi sguardi, de’ suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio d’inspirare, di communicar qualche cosa di se agli spettatori o uditori» [4284].
18 Copernico osserva «che il fatto nostro non sarà cosí semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere» (Tutte le opere, I, p. 170). Né manca in Copernico il timore di «essere abbruciato vivo» per questa sua scoperta scientifica, gravida di tante conseguenze rivoluzionarie. Al che la voce ironica del Sole risponderà rassicurandolo perché se «ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile» (Tutte le opere, I, p. 171; amara-ironica allusione al rogo di Giordano Bruno e al processo di Galileo). Copernico non perderà neppure il suo canonicato, se avrà l’avvertenza prudente di dedicare il suo libro al papa. L’argomento dell’operetta era cosí aggressivo che Leopardi pensò di pubblicarla fuori d’Italia (come quella di Plotino e Porfirio, per il suo attacco all’idea dell’immortalità dell’anima), ed effettivamente rimase inedita (insieme al Plotino e Porfirio e al materialistico Frammento di Stratone) fino all’edizione postuma del 1845, dopo la quale, nel 1850, le Operette furono poste nell’Indice dei libri proibiti (con la solita formula del donec corrigantur!); mentre la rivista della Compagnia di Gesú, «La Civiltà Cattolica», definiva la filosofia sostenuta dal Leopardi come «la piú perniciosa, e, aggiungiamo pure, la piú leggera che sia mai uscita da penna italiana» (cfr. la recensione alla Filosofia di Giacomo Leopardi raccolta e disaminata per Domenico Solimani D. C. D. G., Imola, Galeati Ignazio e figlio, 1853, ne «La Civiltà Cattolica», vol. V (2a serie), 1854, pp. 441-456).
19 Tutte le opere, I, pp. 178-179.
20 Tutte le opere, I, p. 179.
21 Donde l’affiorare già nello Zibaldone del ’27 di pensieri sul valore della «ricordanza», come quello del 23 luglio (Tutte le opere, II, p. 1148).